Conflict of interest
Il solco sempre più ampio che separa l'interesse individuale con quello collettivo. Un libro tedesco e la visita di Trump nel Golfo legati da un comune denominatore.
Foreign Affairs - una newsletter di notizie da tutto il mondo
a cura di Luca Salvemini
N. 114 - 18 maggio 2025
Il prossimo fine settimana - da venerdì 23 a domenica 25 - sarò a Trento per il Festival dell’Economia. Premi Nobel, economisti e analisti geopolitici parteciperanno ai numerosi eventi che seguirò per tutte le tre giornate.
A fine giornata, ogni giorno, invierò una newsletter speciale per riepilogare gli interventi e i pensieri più interessanti che ho raccolto nei vari panel e talk cui parteciperò.
Sul Foglio di qualche giorno fa, ci si interrogava se - quando avremo speso gli 800 miliardi del piano di riarmo europeo, e ogni paese dell’Unione avrà rinnovato il proprio esercito con carri armati, droni, missili, radar, navi, portaerei, elicotteri - riusciremo a sciogliere una questione decisiva, forse la più importante, quella che nessun governo può decidere dal centro del suo potere, con i soldi, la pianificazione, la forza delle norme: chi imbraccerà le armi che compreremo, se sarà necessario? E in nome di cosa? Con quale spirito?
In un libro che sta aprendo più di una discussione in Germania, un giovane giornalista e scrittore di nome Ole Nymoen, 27 anni, ha avuto il merito di intercettare chiaramente il cuore del problema, nel paese che attualmente è il centro del riarmo europeo con 500 miliardi di euro pronti ad essere investiti nei prossimi 12 anni.
Nymoen ha scritto un libro dal titolo “Warum ich niemals fur mein Land Kampfen wurde” (Perché non combatterei mai per difendere il mio paese), all’interno del quale ha proclamato apertamente che no, per nessuna ragione al mondo metterebbe a repentaglio la sua vita per proteggere la nazione in cui è nato e cresciuto.
Il libro è una profonda invettiva contro la classe dirigente tedesca, colpevole di aver avviato una torsione militarista dopo l’invasione russa in Ucraina, arrivando ad infrangere il tabù che aveva retto dalla fine del regime nazista in poi: mai più armi per la guerra.
Solo il 19% dei tedeschi tra i 18 e i 19 anni, oggi, si dichiara pronto a difendere la Repubblica Federale. Un altro sondaggio rileva un dato ancora più basso, attorno al 5%.
E’ evidente come non conti quante armi si possano comprare, se nulla di tutto ciò che regge i nostri paesi pacifici e abbienti è ritenuto meritevole di difesa.
Se la Germania venisse occupata da un paese straniero, scrive Nymoen, “preferirei cercare di scappare che essere costretto ad uccidere. Il diritto di esprimere la mia opinione non vale certo la mia vita”.
Meglio dunque vivere o essere liberi? L’esistenza o la dignità? L’incolumità o la giustizia?
Sono domande a cui probabilmente Donald Trump non dovrà mai dare risposta.
La sua politica è puramente transazionale, non valoriale. Non pone asticelle al di sotto delle quali gli accordi non possono essere conclusi; non pone vincoli o requisiti di moralità o decenza alle sue controparti.
Chiunque può essere o diventare un suo interlocutore e qualunque ambito può essere oggetto di trattativa, accordo, deal. L’importante è che convenga economicamente a lui, ai suoi interessi e - solo incidentalmente - agli interessi degli Stati Uniti d’America.
L’ennesima dimostrazione la si è avuta nel suo primo viaggio in Medio Oriente, dove Trump ha concluso diversi accordi economici cospicui e vantaggiosi.
Per citarne alcuni, l’Arabia Saudita si è impegnata a investire seicento miliardi di dollari negli Stati Uniti, tra cui 142 miliardi per comprare armi e altre attrezzature militari da più di dieci aziende statunitensi del settore della difesa.
Altri accordi, per un totale di circa mille miliardi di dollari, dovrebbero riguardare la “costruzione di centrali nucleari, investimenti nell’intelligenza artificiale e nelle criptovalute”, scrive il New York Times.
Poi c’è stato il famigerato regalo personale dal Qatar ovvero un aereo Boeing 747 del valore di 360 milioni di euro da usare al posto dell’Air force one. Trump pensa di usarlo come Air Force One fino alla fine del suo mandato e poi darlo alla fondazione che costruirà la sua biblioteca presidenziale quando lascerà la Casa Bianca, non è ancora chiaro se per utilizzarlo o esporlo.
Vi allego grafico particolarmente esplicativo sulla “enormità” del regalo qatarino.

Conoscendo il personaggio, le monarchie del Golfo hanno fatto a gara per ingraziarsi Donald Trump con ogni sorta di omaggio e regalia.
Il Qatar, grazie alla grande influenza che ha sull’Iran e quindi su Hamas, ha ottenuto la liberazione dell’ultimo ostaggio statunitense a Gaza. Gli Emirati Arabi Uniti hanno comprato due miliardi di dollari della criptovaluta di Trump.
Nei giorni scorsi i figli di Trump avevano firmato contratti per costruire una Trump Tower a Dubai, un golf resort in Qatar e altri due grossi progetti di sviluppo immobiliare a Riyad, in Arabia Saudita.
Nei mesi scorsi poi l’Arabia Saudita aveva deciso a sorpresa di aumentare molto la produzione di petrolio, per far scendere i prezzi e fare così un altro favore a Trump.
In definitiva, le nazioni che Trump ha visitato hanno fatto a gara ad annunciare i maggiori acquisti negli Stati Uniti. L’Arabia Saudita ha annunciato investimenti per 600 miliardi di dollari: armi, centrali nucleari, intelligenza artificiale. Non volendo essere da meno, alla tappa successiva il Qatar ha rilanciato: 1.200 miliardi di dollari! A quel punto gli Emirati Arabi Uniti non potevano certo fare la figura degli spilorci, e hanno detto 1.400 miliardi.
Come spiega Francesco Costa nella sua newsletter, sono cifre che non hanno molto senso. Il Qatar ha un PIL che supera di poco i 200 miliardi, e il suo intero fondo sovrano non arriva a 600. Il fondo sovrano saudita, che è uno dei più ricchi del mondo, non arriva a 1.000 miliardi. Gli Emirati hanno promesso investimenti per una cifra pari addirittura a tre volte il loro PIL. Gli accordi firmati sono impegni, annunci, dichiarazioni d’intenti la cui concretezza si risolverà in impegni molto più piccoli.
Ma che hanno un grande valore politico.
Cito un passaggio centrale della newsletter di Costa che ci collega al libro del ragazzo tedesco, Ole Nymoen:
Gli affari tra gli Stati Uniti e i paesi mediorientali non sono una novità. Ma la novità – che ha fatto parlare del discorso di Trump a Riyad come del più importante ed «epocale» delle sue presidenze – è che gli affari economici non sono più legati a obiettivi politici.
Gli Stati Uniti hanno ottenuto lo status di prima superpotenza al mondo con una strategia di semplice e brutale efficacia: noi ci mettiamo i soldi, anche con una certa generosità, vedi il piano Marshall, e vi diamo l’opportunità di investire e guadagnare grazie all’economia di gran lunga più forte del pianeta; voi fate quello che diciamo noi.
Le cose naturalmente non hanno mai filato così lisce: tra le nazioni ci sono sempre negoziati e confronti, mediazioni e dibattiti, ma i governi statunitensi hanno sempre pensato che in politica estera gli affari non fossero solo un fine in sé ma anche un mezzo per guadagnare influenza e raggiungere obiettivi politici. Pensate agli investimenti sulla difesa in Europa, per fare un altro esempio a noi vicino.Tutta la storia dei dazi ci ha già mostrato come Trump non creda che quel rapporto di interdipendenza rappresenti un valore sul piano politico, e anzi che sia disposto a farlo saltare o logorarlo pur di approfittarne e spremere i propri alleati più vulnerabili. Allo stesso modo, la vicenda ucraina ci mostra ogni settimana che a Trump non importa di chi abbia ragione e chi torto, di chi sia un alleato e chi no: a Trump frega solo di Trump.
Le cose che abbiamo visto accadere questa settimana seguono la stessa logica.
Anche l’amministrazione Biden, per esempio, cercava di fare affari con l’Arabia Saudita, ma ci metteva in mezzo la condizione del riconoscimento di Israele. Gli affari con il Qatar avevano sempre un qualche legame con la difesa e con la normalizzazione dei rapporti con l’Iran. E le questioni dei diritti umani, della libertà e della democrazia portavano a rimbrotti, sanzioni, rallentamenti o accelerazioni: facevano sempre parte delle conversazioni.
Ora non accade più, e Trump lo ha rivendicato esplicitamente.
A rimarcare la natura commerciale - e non valoriale - della politica del Presidente Trump, si pensi all’incontro di questa settimana, promosso dall’Arabia Saudita, con il presidente della Siria, Ahmad al-Sharaa, uno che fino a pochi anni fa gli Stati Uniti consideravano un terrorista.
Trump non solo lo ha ricevuto, gli ha stretto la mano entusiasta e sorridente, ma ha anche annunciato la sospensione di tutte le sanzioni contro la Siria.

A Trump non importa niente degli ucraini ma nemmeno di Putin; non gli frega niente dei palestinesi ma nemmeno di Netanyahu, che giudica uno che riceve ben più di quanto da.
Quel che conta per lui è chiudere il prima possibile i conflitti per poter cantare vittoria e concentrare le sue attenzioni altrove: chiuderli in qualsiasi modo, giusto o ingiusto, chiuderli purché sia.
Basta che smettano subito.
Ecco allora cosa lega il pacifismo estremo di Ole Nymoen, il giovane scrittore tedesco contro la guerra e contrario a scendere in trincea per difendere “la sua libertà ed i valori del suo paese” e la politica transazionale di Donald Trump, una ideologia esclusivamente commerciale che prescinde dal valutare il prestigio valoriale e la credibilità morale del suo interlocutore, se ne infischia delle sue posizioni sul rispetto dei diritti umani, e mette al centro l’interesse economico e la convenienza negoziale del deal.
A legare i due personaggi, uno di 27 anni e uno di 78 anni, non è un’appassionata forma di non-violenza di gandhiana memoria (sicuramente non nel secondo caso), quanto piuttosto un nemmeno troppo velato conflitto di interessi, concretizzato dall’anteposizione esclusiva dell’interesse individuale rispetto a quello collettivo.
Nymoen lo dice anche apertamente quando dichiara che “non sono disposto a morire per mantenere il mio paese democratico e impedire che diventi autoritario”; Trump lo fa capire altrettanto palesemente, visitando Paesi che, nel frattempo, acquistano le sue criptovalute o concludono accordi con i suoi figli o la sua famiglia (negli ultimi sei mesi il patrimonio digitale dei Trump è salito a tre miliardi di dollari. Merito soprattutto della sua criptovaluta).
Mi aveva colpito un reportage di qualche settimana fa, a cura di Meron Rapoport, su +972 Magazine-Sikha Mekomit, sull’aumento sempre più consistente dei casi di rifiuto, da parte dei riservisti israeliani, di partecipare al conflitto a Gaza.
La maggior parte di queste rientrano nella categoria degli “obiettori grigi”, ovvero coloro i quali non si oppongono per principio alla guerra ma sono demoralizzate, stanche o non ne possono più del conflitto. Oltre a queste c’è una minoranza di riservisti, piccola ma in aumento, che rifiuta l’arruolamento per motivi etici.
Yael Berda, sociologa dell’università ebraica di Gerusalemme, affermava come “le persone si ribellano all’idea che il collettivo sia più importante dell’individuo dicendo: ‘Gli obiettivi dello stato sono importanti, ma io ho la mia vita’”.
Questo scollamento tra gli obiettivi dello Stato e gli obiettivi personali, questo enorme conflitto di interessi spiega tutta la drammatica rottura del contratto sociale che sta affliggendo oggi in diversi paesi del globo, in primis gli stessi paesi europei.
Una rottura che diventa esiziale per la sopravvivenza di uno Stato quando ci si pone davanti alla domanda più importante per un cittadino: sei disposto a morire per il tuo paese?
Sono rimasto abbastanza scioccato dalle affermazioni del giovane autore tedesco,specialmente quando afferma “ se il mio Paese viene invaso preferisco fuggire”.Una morale abbastanza comoda e utilitaristica,figlia probabilmente del benessere conseguente a 80 anni di pace,ottenuta certamente non per merito dj quelli che la pensavano come lui.
E' una prospettiva interessante che anche io sto esplorando da qualche tempo. Come scrivi alla fine, è un'altra crepa nel contratto sociale. Solo che se smontiamo le democrazie liberali (con tutti i loro difetti e limitazioni), ciò che le sostituirebbe non è niente di meglio.