Grazie Donald Trump
Lo scossone del Presidente americano può servire per risolvere alcune storture del modello globale che abbiamo costruito.
Foreign Affairs - una newsletter di notizie da tutto il mondo
a cura di Luca Salvemini
N. 109 - 13 aprile 2025
I dazi di Trump, due guerre in corso, la fine della globalizzazione e del mondo unipolare.
In questa newsletter settimanale provo a rimettere piccole tessere del puzzle al loro posto, per ricomporre il quadro finale nella sua interezza.
Il 20 aprile pubblicherò un’edizione speciale della newsletter dedicata esclusivamente agli abbonati a pagamento. Commenteremo dieci frasi profetiche tratte dal saggio di Francis Fukuyama “La fine della storia e l’ultimo uomo” e le trasporteremo nei giorni nostri da Trump a Orban, dalla crisi della democrazia al valore delle religioni nella civiltà attuale.
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Negli anni Ottanta Milton Friedman (Premio Nobel per l’Economia), registra un video - rilanciato polemicamente in questi giorni anche da Elon Musk - con cui, spiegando com’è fatta una matita, elogia i pregi del libero commercio.
Friedmann, durante il video, descrive dettagliatamente la composizione della matita, partendo dal legno degli Stati Uniti, la grafite del Sud America, la gomma della Malesia, la ghiera e la vernice forse dell’Europa.
E poi si domanda cosa faccia collaborare migliaia di persone che non si conoscono e parlano lingue diverse? La magia del sistema dei prezzi, si risponde l’economista. Un sistema che, spiega Friedman, “promuove l’armonia e la pace tra i popoli del mondo”.
Lo statement finale pro liberalismo è definitivo: “Non c’è una singola persona al mondo capace di fare questa matita”.
Se volessimo trasporre nei nostri giorni la “matita di Friedman”, oggi potremmo sicuramente assegnare la palma della globalizzazione al prodotto universale per definizione: l’iPhone.
Ad esaltare orgogliosamente la produzione cross border dello smartphone è la stessa Apple, la quale firma ogni suo prodotto con lo slogan «Progettati da Apple in California. Costruito da persone, ovunque».
Ed in effetti è proprio così.
I metalli necessari per produrre alcuni componenti dei dispositivi (oro, tungsteno, stagno e tantalio) provengono da circa 80 paesi con oltre 200 fornitori, dei quali solo il dieci per cento ha sede negli Stati Uniti. I componenti veri e propri sono invece prodotti da aziende di Singapore, Taiwan, Vietnam, Malaysia, Filippine, Thailandia, Corea del Sud, Giappone, Cina e India, solo per citarne alcuni. I processori che Apple progetta e sviluppa sono realizzati a Taiwan, gli schermi in Corea del Sud, i sistemi di memoria in Giappone, così come spesso i componenti principali delle fotocamere, mentre le batterie hanno origine cinese.
A loro volta queste aziende fornitrici utilizzano componenti provenienti da altre parti del mondo, in un intreccio articolato di importazioni ed esportazioni di materiale.
L’intera filiera produttiva di Apple impiega all’incirca 1,4 milioni di persone in oltre 320 società fornitrici. Immaginare di impiegarne la maggior parte negli Stati Uniti è tecnicamente impensabile.
Il motivo lo ha spiegato Tim Cook, CEO di Apple, nel 2017, in un’intervista:
Negli Stati Uniti potresti organizzare un incontro di ingegneri di macchine utensili e non sono certo che riusciremmo a riempire una stanza. In Cina potresti riempire diversi campi da football.
Nei giorni scorsi il segretario al Commercio, Howard Lutnick, per spiegare agli americani i benefici dei dazi imposti da Trump al resto del mondo, ha detto che presto si vedrà “un esercito di milioni e milioni di esseri umani che avvitano piccolissime viti per assemblare gli iPhone, quel tipo di lavoro arriverà in America”.
Quel “presto” però è destinato a durare un bel pò visto che, notizia proprio di ieri, il governo degli Stati Uniti ha escluso smartphone, computer e altri componenti elettronici dai nuovi dazi.
Dopo l’annuncio dei dazi universali da parte di Donald Trump e dell’amministrazione americana, la domanda che in tanti si sono posti è se possiamo davvero ritenere conclusa la “globalizzazione”, ovvero quel processo attraverso cui persone, merci, idee, denaro e informazioni circolano da una parte all’altra del mondo, creando legami economici, culturali e politici tra Paesi diversi.
A mio personale avviso, direi proprio di no, non è affatto conclusa. Per fortuna.
Facciamo un breve ripasso storico.
Prima della Prima Guerra Mondiale, la globalizzazione era al suo culmine.
Il progresso tecnologico, il piroscafo, il telegrafo consentivano a persone, merci e notizie di attraversare i confini con inedita rapidità. Le migrazioni ebbero un boom.
In quel momento molti credevano che questo internazionalismo fosse irreversibile e che l'interdipendenza dell'economia globale avrebbe garantito pace e prosperità.
Alla fine del XX secolo c’è stata la seconda grande accelerazione della globalizzazione. Il comunismo è crollato. L'Unione Europea si espande. La Cina entra nel sistema commerciale mondiale (WTO).
A questi due momenti di massima espansione della globalizzazione sono seguiti due altrettanti crolli. Le cui cause è interessante analizzare.
Nel 1913 il valore dei beni esportati rappresentava il 14% dell'economia mondiale. Nel 1933, distrutto dalla Prima Guerra Mondiale e dalla Grande Depressione, era crollato al 6% e si è ripreso solo negli anni Settanta.
Il primo fu determinato dalla guerra, che portò a un blocco virtuale delle migrazioni transatlantiche e ostacolò gravemente il commercio. La dipendenza dalle importazioni divenne improvvisamente un tallone d'Achille.
La lezione che trassero nel dopoguerra fu che non avrebbero mai più dovuto dipendere dalle importazioni di cibo o di beni di prima necessità. Durante la guerra, austriaci e tedeschi iniziarono a piantare patate sotto i binari dei treni e ad allevare capre sui loro balconi.
L'indipendenza economica divenne un obiettivo di democrazie e dittature, imperi e colonie, piccoli e grandi Stati. L'architetto austriaco Adolf Loos, osservò che quella che un tempo era considerata la cucina austriaca comprendeva in realtà cibi provenienti da tutto l'Impero austro-ungarico: gnocchi di patate dalla Boemia, cotoletta dalle terre di confine di lingua italiana, torte dolci dalla Moravia. Ora che l'impero si era dissolto in Stati nazionali, era necessario che gli austriaci "creassero una propria cucina nazionale" composta esclusivamente da "cibi locali".
Un'ondata più grave di antiglobalismo seguì il crollo dell'economia globale negli anni Trenta.
Le persone di tutto il mondo impararono a loro spese che le loro vite potevano essere distrutte da una crisi economica a Vienna o a New York.
Una soluzione popolare era il ritorno alla terra.
Hitler invidiava gli Stati Uniti per aver costruito un impero continentale vasto e ricco abbastanza da garantire il sostentamento della popolazione, anche a costo di milioni di vite indigene. Questo era esattamente il tipo di impero che voleva per la Germania. La Polonia, gli Stati baltici e parti dell'URSS sarebbero diventati il selvaggio Oriente della Germania. Lo stesso Mussolini voleva costruire un nuovo Impero Romano in Libia e in Etiopia.
Oggi ci sono alcuni indizi che vanno nella stessa direzione.
L'invasione dell'Ucraina da parte della Russia due anni fa.
La Groenlandia e il Canada saranno le prossime Cecoslovacchia e Polonia?
Dopo questi due scossoni, è arrivata la crisi economica globale del 2008 a devastare i mezzi di sussistenza individuali e a mettere in discussione la fiducia delle persone nella stabilità e nell'equità del capitalismo globale.
Infine la pandemia di Covid, diffusasi con velocità fulminea grazie alla mobilità globale, ha provocato un'improvvisa e sconvolgente interruzione del commercio, dei viaggi e del lavoro a livello mondiale. La pandemia ha rivelato la fragilità delle economie che dipendono dalle importazioni per le forniture di base. Le carenze e l'intasamento delle catene di approvvigionamento hanno spinto i governi e le aziende a prendere in considerazione l'idea di spostare le attività più vicino a casa (reshoring).
A livello politico, sia alla fine della Prima Guerra Mondiale quando l’inflazione causò carestie, rivolte e sconvolgimenti politici, allo stesso modo, lo shock inflazionistico globale iniziato alla fine di Covid ha favorito l'ultima campagna presidenziale di Trump.
I partiti al governo hanno perso circa il 70% delle elezioni in tutto il mondo dal 2022 al 2024.
Alle ultime elezioni americane il libero commercio e la libera circolazione delle persone, due fenomeni che hanno reso l'America ricca e potente, sono stati oggetto al centro del risentimento popolare (i cd. forgotten people che hanno votato in massa per Trump).
Quando si analizza il decorso “vittorioso” della globalizzazione alla fine del XIX secolo non si può quindi evitare di parlare di vincitori ma soprattutto vinti. Delle fortune della globalizzazione, ma anche delle sue storture.
Quando i migranti ricevevano salari più alti, gli altri lavoratori spesso perdevano lavoro o reddito a causa della concorrenza con i nuovi arrivati. Se è pur vero che le economie in via di industrializzazione traevano vantaggio dalla manodopera migrante a basso costo, i Paesi che esportavano i loro cittadini subivano un’emorragia delle loro menti migliori e più brillanti. Le importazioni meno costose sono state una manna per i consumatori, ma hanno danneggiato molti produttori locali.
Il libero scambio e le migrazioni hanno portato benefici a tutte le economie in generale, hanno assicurato un periodo incredibilmente lungo di pacificazione tra la gran parte dei paesi del mondo, ma i benefici non sono stati distribuiti in modo uniforme.
Già precedentemente alla prima guerra mondiale, negli Stati Uniti e in Germania, i calzolai locali si lamentavano di non poter competere con le importazioni dalla Cecoslovacchia tra le due guerre, prodotte da un'azienda calzaturiera antisindacale.
Se vogliamo davvero ri-discutere di globalizzazione, e l’assurda politica commerciale di Trump ce ne sta dando l’occasione, la cosa più importante da fare è affrontare uno dei sottoprodotti fondamentali della globalizzazione, ovvero la disuguaglianza.
Nel 1944, Karl Polanyi, scienziato sociale ungherese, sosteneva che l'ascesa del fascismo non era una conseguenza della Grande Guerra, del Trattato di Versailles o del militarismo tedesco. Fu piuttosto una risposta alle indignazioni imposte dal liberismo economico e dalla globalizzazione.
Oggi non dovrebbe essere necessaria la distruzione di democrazie e la morte di 70 milioni di persone per farci capire che l'attuale architettura della globalizzazione può e deve essere cambiata.
E questo non può accadere se non facciamo seriamente i conti con le sofferenze e le disuguaglianze causate dall’attuale sistema commerciale.
Per salvare il globalismo è necessario preoccuparsi del benessere dei perdenti in Ohio e Pennsylvania e dei vincitori a Manhattan e nella Silicon Valley.
La revisione del modello economico internazionale deve necessariamente partire dal rafforzamento delle tutele previste dai singoli sistemi di spesa sociale, soprattutto con riferimento:
alla garanzia di minime prestazioni sanitarie coperte dalla finanza pubblica (per una visita cardiologica da fare con priorità entro 30 giorni, oggi in Italia si arriva ad aspettare oltre 300 giorni),
all’assistenza all’infanzia (inutile lamentarsi della bassa demografia se dopo non si implementa una seria politica di incentivo alle nascite e alla costruzione degli asili nido),
agli alloggi (il tema case sta dilaniando intere generazioni),
alla gestione delle migrazioni, che dovrà basarsi sempre di più su competenze, quote e corridoi,
al rafforzamento dell’istruzione.
Se vogliamo davvero salvare la globalizzazione, dobbiamo rendere più solido il supporto sociale nei confronti di coloro i quali, in “quella” globalizzazione, non ci ha mai messo nemmeno un piede.

I dazi di Donald Trump potrebbero farci evitare di attraversare la terza guerra mondiale per comprendere le storture dell’attuale sistema commerciale globale. Non sarà necessario coltivare patate sotto i binari dei treni o allevare capre sui nostri balconi.
Risolvere le tensioni tra globalizzazione e uguaglianza è uno dei compiti più urgenti del nostro tempo.
Il nostro futuro dipende da questo.
Forse tra qualche tempo ci ritroveremo addirittura a ringraziare uno strambo presidente degli Stati Uniti d’America, quel giorno in cui ha annunciato dazi per quasi tutti i paesi del mondo, pinguini e foche comprese.