Concentrazione massima
I tech-bro guys seduti dietro il potente di turno. La sfida delle disuguaglianze e il rapporto incestuoso con la politica. I veri nodi da sciogliere oggi.
Foreign Affairs - una newsletter di notizie da tutto il mondo
a cura di Luca Salvemini
N. 98 - 26 gennaio 2025
E’ stata senza dubbio la settimana di Donald Trump.
La prima settimana del suo insediamento, il suo discorso da Conte di Montecristo e dai toni ostentatamente ri-vendicativi, il suo “negli Stati Uniti esistono solo uomini e donne” scandito a chiare lettere, i duecento e oltre ordini esecutivi firmati nel primo giorno della sua amministrazione. E poi il ritiro dagli Accordi di Parigi, dall’OMS, dai programmi green e, nello stesso tempo, le modifiche per rendere più semplice licenziare chi si occupa alla Casa Bianca di diversity & inclusion.
Un tritacarne, tritatutto. La mia sensazione è che, questa volta, l’attenzione su Trump, su cosa dirà ma soprattutto su cosa poi effettivamente farà, sarà quadrupla rispetto a quattro anni fa. Molti lo hanno più volte sottovalutato; oggi commettere lo stesso errore non è più giustificato.
Tuttavia, la cerimonia di lunedì 20 gennaio è stata fortemente simbolica anche e soprattutto per un’altra ragione: la presenza, alle spalle del nuovo presidente americano, della nuova oligarchia americana.
Anzi, per essere più corretti, la broligarchia. I cosiddetti tech-bro guys.
Una rapida carrellata da sinistra verso destra:
- Priscilla Chan e Mark Zuckerberg, founder & CEO di Meta (219 billion $),
- Lauren Sanchez e Jeff Bezos, CEO di Amazon, seconda persona più ricca del mondo (248 billion $),
- Sundar Pichai, CEO di Google (azienda da 2.000 billion)
- Infine, ovviamente, il fedelissimo Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo (436 billion $).
Non erano gli unici oligarchi presenti al gran ballo cerimoniale di Donald Trump o, come alcuni più malevoli l’hanno soprannominato, al “bacio della pantofola” (bend the knee, piegare le ginocchia per essere precisi).
C’erano, tra gli altri, anche Sergey Brin ($154 billion), co-founder di Alphabet (owner di YouTube e Google), Sam Altman (1,1 billion $), CEO di OpenAI - il giorno dopo ha firmato un accordo con l’amministrazione americana per un investimento in ricerca sull’intelligenza artificiale di soli 500 miliardi di $ -, Tim Cook (2,2 billion $), CEO di Apple, Bernard Arnault, (179,6 billion $), capo supremo del gruppo del lusso LVMH nonché persona più ricca della Francia.
Completavano la lista Rupert Murdoch, colui che, pur di sostenere economicamente e politicamente Donald Trump, ha messo a repentaglio la stabilità della sua succession familiare (oltre 20 billion $ di patrimonio); infine c’era anche Mukesh Ambani, 98 billion $, persona più ricca dell’India (vi ricorderete il matrimonio itinerante del figlio in giro per il mondo) e degno rappresentante della corrente nouveau riche.
La lista intera dei billionaires la trovate quì ed è oggettivamente impressionante per concentrazione.
Ora, capiamoci.
Molti dei personaggi che vi ho citato, quattro anni fa, omaggiavano e mettevano i loro cospicui patrimoni oltre ai vari strumenti di influenza a disposizione dell’amministrazione Biden. Così come l’amministrazione Obama, Bush o Clinton ha avuto i suoi ricchi “cortigiani”.
Non è questa una novità.
Lo stesso Zuck ha recentemente raccontato, pentendosi, di aver assecondato assillanti richieste ricevute durante il periodo pandemico, da parte di funzionari dell’amministrazione Biden, per costringerlo a rimuovere post e contenuti che avessero ad oggetto dubbi e scetticismi vari su vaccini e origini della propagazione del Covid.
Il principio per il quale Zuck ha assecondato quelle richieste, il principio per cui lo stesso Zuck ha rimosso Donald Trump - solo quattro anni fa - da Facebook a seguito della rivolta di Capitol Hill, è il medesimo principio per il quale, oggi, i tech-bro guys, insieme a tutti gli altri oligarchi presenti nella Rotunda del Campidoglio, si affannano nel mettersi in coda per baciare la pantofola: assecondare il potente di turno pur di difendere il proprio patrimonio.
Questo è il fulcro di tutto, dall’economia alla politica, specie se il campo da gioco di cui raccontiamo le vicende è il paese capitalista per antonomasia.
Nessuna ideologia guida, o ha guidato, le loro azioni, eccetto la salvaguardia del proprio status, del proprio patrimonio, dei propri interessi. Fine, stop.
Ecco, avendo ben presente il contesto e l’oligopolio di mercato in cui i vari Bezos, Musk, Zuckerberg & soci hanno potuto prosperare - non tanto dissimile da quello russo, seppur i due paesi, per diverse ragioni, non possano paragonarsi -, il loro principale obiettivo è ostentare disponibilità al nuovo commander in chief. Ossequiarlo, in una forma di adulazione che, notoriamente, “l’adulato” è noto apprezzare.
Rispetto a quattro anni fa, da questo punto di vista, non è cambiato nulla. Il principio egoistico di salvaguardia del proprio giardino è il medesimo, solo che il POTUS era Joe Biden e non Donald Trump (forse è proprio per questo che oggi, tanti commentatori “non terzi imparziali” gridano allo scandalo).
Ciò che, invece, è effettivamente cambiato negli ultimi quattro anni è la straordinaria concentrazione di grandi, enormi ricchezze nelle mani di sempre meno persone.
Nel 2024 il patrimonio complessivo dei miliardari di tutto il mondo è cresciuto di duemila miliardi di dollari, cioè di 5,7 miliardi al giorno, tre volte di più dell’aumento registrato l’anno precedente (dati Rapporto Oxfam).
Lo studio rivela che entro i prossimi dieci anni nel mondo potrebbero esserci cinque persone con un patrimonio di almeno mille miliardi di dollari.
Allo stesso tempo, se voltiamo la medaglia dall’altro lato, il numero delle persone che vivono con meno di 6,85 dollari al giorno (la soglia della povertà secondo la Banca mondiale, invariata dal 1990) è vicino a 3,6 miliardi, cioè al 44 per cento della popolazione mondiale.
Andiamo al dunque e poi ci salutiamo.
La politica, da sempre, vive in un rapporto di stretta necessità con i mezzi finanziari privati. L’attività politica ha un costo, la promozione delle proprie idee ha un costo, la mobilitazione stessa ha un costo. Nulla di male, è comprensibile che sia così.
Allo stesso tempo, l’imprenditoria, da sempre, vive nel medesimo rapporto di stretta necessità con la politica e le istituzioni governative. Lo fa direttamente in prima persona, presenziando alle cerimonie di insediamento dei governi o finanziando le campagne elettorali di questo o di quel candidato, oppure indirettamente (ad esempio tramite i lobbisti). La finalità è tutelare gli interessi economici della propria azienda, assicurarsi leggi più vantaggiose o tassazioni agevolate.
Fino a quì, rientra tutto in un fisiologico dualismo pubblico-privato.
Sono due mondi che fisiologicamente devono rivolgersi la parola. Il problema è che, almeno negli ultimi vent’anni, questo è avvenuto su un piano solo remotamente paritario. Il più delle volte quel piano è stato asimmetrico, se non totalmente sbilanciato a favore dell’interesse privato.
La tendenza cui abbiamo assistito negli ultimi anni è stata la sempre più progressiva e incessante concentrazione di ricchezze sempre nelle stesse società, negli stessi azionisti, negli stessi CEO (è stato persino coniato l’acronimo GAFA - Google, Alphabet Facebook, Amazon - che però ne dimentica tante altre).
E mentre questo accadeva, la politica - a vari livelli e latitudini - da un lato si mostrava disinteressata e colpevole nel non voler assicurare una crescita “sostenibile e concorrenziale” di questi giganti, preferendo il loro gigantismo deregolamentato in quanto di manifattura e proprietà americana (il settore tecnologico privato americano è, da sempre, classificato non meramente un ambito economico aperto alla libera iniziativa economica privata, ma prima di tutto un tema di sicurezza nazionale, quindi da intendersi con le metriche e le lenti della competizione globale tra Stati amici e alleati e non. Si veda l’affaire Tik-Tok). Dall’altro lato, le istituzioni governative conoscevano la più ampia e profonda crisi di credibilità e di fiducia degli ultimi venti anni, con livelli di astensionismo record e il depauperamento del valore del proprio diritto di voto che ormai ha raggiunto apici mai toccati.
La concentrazione massima delle ricchezze ha abilitato il pesante condizionamento dell’interesse privato nelle scelte della politica e delle istituzioni che, invece, dovrebbero avere un ventaglio di interessi ed esigenze più ampio da contemperare e bilanciare.
Volete un esempio di tutto ciò? Semplice. Su cosa sta insistendo, tra le altre cose, Donald Trump nelle sue prime dichiarazioni roboanti? Già, Greenland, Groenlandia, l’enorme isola ai margini del Circolo polare artico che dal 1979 costituisce un territorio autonomo della Danimarca.
E come mai è così interessato ad acquisirne possesso e sovranità? Beh, semplice anche questo. La Groenlandia è ricchissima delle cosiddette materie prime critiche: un gruppo di metalli necessari per il settore tecnologico - ecco che tornano i tech-bro guys, gli stessi azionisti, le stesse aziende, gli stessi CEO - perché hanno un ruolo fondamentale nella costruzione dei microchip e di vari componenti, ma anche per la transizione energetica.
La Groenlandia ha riserve sotterranee conosciute di circa 43 dei 50 materiali che il dipartimento di Stato statunitense considera critici, e di 25 dei 34 indicati dalla Commissione Europea. In totale, la Groenlandia ha 1,5 milioni di tonnellate di terre rare, dato che la pone tra i primi dieci paesi al mondo, insieme alla Cina, al Brasile, al Vietnam, all’India e all’Australia.
Tralasciando l’impatto ambientale di un modello economico perennemente estrattivo, è evidente come le parole e le idee di Trump siano condizionate da chi gli sedeva alle spalle durante la cerimonia di insediamento, pronti ad elargire supporto economico al potente di turno, ma soprattutto prontissimi a riscuoterne, con lauti e cospicui interessi, i ritorni di tale investimento.
E allora concentrazione della ricchezza, disuguaglianze e indebolimento delle istituzioni. Sta tutto quì il rapporto incestuoso tra due parti che, in una libera economia di mercato, devono parlarsi e devono costantemente contrattare.
Ma devono farlo da rapporti di forza equilibrati, bilanciati, simmetrici.
Quando non lo sono, il risultato sono le dittature in un caso - quando il potere politico soverchia qualsiasi altro tipo di interesse privatistico ed individuale - e gli Stati Uniti d’America (come tanti altri paesi in tutto il mondo) dei prossimi anni, nell’altro caso.