Chi vuole la guerra con l’Iran?
Dalle divisioni interne al mondo MAGA alla fatwa iraniana. Tutta la posta in gioco di Trump sul dossier Iran.
Foreign Affairs - una newsletter di notizie da tutto il mondo
a cura di Luca Salvemini
N. 121 - 22 giugno 2025
L’attacco americano di questa notte in Iran cambia totalmente lo scenario che si prefigurava fino a ieri davanti ai nostri occhi.
Per giorni, dopo le convulse ore successive all’attacco israeliano nei confronti di Teheran, tutti gli analisti geopolitici hanno cercato di comprendere il possibile punto di escalation di questo nuovo teatro di guerra.
Sulle prime Israele ha motivato l’attacco preventivo con l’obiettivo di arrestare e demolire il progetto di sviluppo della bomba atomica da parte iraniana; ma nelle ore successive è apparso abbastanza nitidamente come il reale obiettivo di Netanyahu, galvanizzato dal successo ottenuto negli attacchi missilistici su Teheran e sui siti nucleari, potesse essere il “regime change”, il rovesciamento del regime teocratico iraniano e l’uccisione della Guida Suprema Ali Khamenei.
Per raggiungere questo obiettivo, tuttavia, è apparso chiaro, come in tanti altri conflitti passati ed attuali, come fosse decisivo l’intervento - o meno - dell’alleato principale dello Stato di Israele, gli Stati Uniti d’America.
Quell’intervento è arrivato stanotte.
Gli Stati Uniti hanno colpito tre siti nucleari iraniani – Fordo (quello più protetto), Natanz e Isfahan – impiegando bombe da 14 tonnellate, lanciate dai bombardieri B-2 che ieri erano stati spostati nelle basi nell’oceano Indiano.
In un discorso alla nazione il presidente Donald Trump ha detto che l’attacco ha «completamente e totalmente annientato» le capacità iraniane di arricchire l’uranio, minacciando di farne altri se il paese non accetterà le sue condizioni.
I media del regime iraniano hanno sostenuto invece che i siti fossero stati evacuati e svuotati di scorte e materiale prima dell’attacco: un’informazione al momento impossibile da verificare.
Tanti aspettavano di capire le reali intenzioni del Presidente, Donald Trump, il quale solo giovedì scorso, in una surreale conferenza stampa tenuta nell’Oval Office, con alle spalle i giocatori di una squadra di calcio italiana - la Juventus -, rispondeva tra l’incerto e il furbesco alle domande dei giornalisti che gli chiedevano cosa avesse deciso di fare riguardo l’entrata in guerra a fianco di Israele. «Forse attaccheremo, forse no». Poi ancora: «Nessuno sa cosa farò, soltanto io». Infine, almeno per ora: «Deciderò entro due settimane».
L’entrata in guerra americana sembrava sul punto di essere annunciata nella giornata di martedì ma tutto poi bruscamente si è arrestato.
Nessun annuncio.
Molti hanno spiegato lo stop di Trump nella frammentazione, se non vera e propria frattura, che rischia di dilaniare l’elettorato del Presidente, suddiviso tra il mondo “MAGA” (Make America Great Again) ovvero la fascia di elettori che ha supportato Trump dall’inizio della sua avventura politica, dichiaratamente isolazionista e contraria a qualsiasi intervento americano in guerre che riguardano altri paesi (vedasi Ucraina e oggi l’Iran) e il mondo “neocon”, ovvero l’establishment repubblicano americano, l’apparato di sicurezza, dal Pentagono alla CIA, i senatori Graham e Ted Cruz - quest’ultimo massacrato da Tucker Clarson, ovvero il giornalista più seguito e vicino a Trump in questa intervista su Youtube - che spingono per demolire definitivamente il grande nemico di sempre degli Stati Uniti, l’Iran, e rinsaldare la posizione del più grande amico mediorientale degli americani ovvero Israele.
Stando agli eventi di questa notte, sembrerebbe che quest’ultimo “schieramento” abbia ottenuto la sua prima vittoria.
Vi sono tuttavia molti elementi che inducono a ritenere come Trump avrà molto da fare nel spiegare agli americani la decisione di entrare in guerra contro l’Iran e gestirne le reazioni di un’opinione pubblica molto contrariata.
I primi sondaggi effettuati hanno evidenziato come il 60% degli americani intervistati disapprovi l’entrata in guerra contro l’Iran.
C’è una larghissima parte della popolazione americana che ha sofferto le lettere dal fronte che annunciavano le vittime dei soldati americani in Iraq, in Afghanistan, nel Vietnam se vogliamo andar indietro di qualche anno.
Donne, uomini, famiglie intere che hanno visto i propri compagni e figli morire lontano da casa o tornare dopo anni con crisi post-traumatiche che hanno deviato la loro esistenza e quella di chi vi viveva affianco.
“Entrare in guerra” è un modo di dire che spesso, soprattutto nelle giovani generazioni dell’occidente europeo, non è mai stato sperimentato nella sua reale brutalità; in America, invece, molti sanno cosa vuol dire, molti vivono e soffrono le cicatrici che l’egemonia americana nel mondo ha causato all'anello più debole della catena: i soldati americani.
Ecco, quel mondo lì ha votato Donald Trump perché per mesi, in campagna elettorale, ha sbandierato il suo “pacifismo”, il suo totale disinteresse per la globalizzazione ideologica americana, preferendo far risplendere i confini americani, le industrie americane e l’isolazionismo a stelle e strisce.
Trump è stato premiato alle elezioni presidenziali perché ha anche saputo intercettare la frustrazione delle famiglie americane spezzate o distrutte a causa della guerra entrata direttamente nelle loro case.
Tra il 14% -16% dei militari statunitensi dispiegati in Afghanistan e Iraq hanno sviluppato una forma di Post Traumatic Stress Disorder o forme di depressione. Almeno uno su cinque dei reduci dall’Afghanistan e dall’Iraq soffre di tali patologie.
Uno studio specialistico ha rivelato che il rischio di problemi di tipo mentale aumenta di addirittura quattro volte per i soldati che sono alla loro terza o quarta missione in zone di conflitto.
Uno studio di maggio 2023 certificava un dato spaventoso: oltre 6.000 veterani si tolgono la vita ogni anno.
Questi numeri oggettivizzano cosa significhi “entrare in guerra”.
Ecco che allora la strettoia per Donald Trump diventa molto insidiosa e molto complessa da attraversare. La risoluzione di questo compromesso - ancor di più dopo l’entrata in guerra di questa notte - condizionerà inevitabilmente il prosieguo del suo mandato e, soprattutto, l’esito delle elezioni di metà mandato a novembre del prossimo anno.
Bisogna a questo punto aggiungere un ultimo tassello che - forse - spiega la decisione di questa notte.
Quando si parla di Iran per Donald Trump c’è anche un tema personale che ha a che fare con la propria vita.
Non ebbe grandissimo risalto, data la sovrapposizione della campagna elettorale, la notizia dello sventato attentato che il governo iraniano avrebbe ordìto per assassinare proprio Donald Trump. La sua colpa era quella di aver commissionato - durante il suo primo mandato - la morte del generale iraniano Qassim Suleimani, uno dei fedelissimi della Guida Spirituale iraniana Ali Khamenei.
Soleimani è stato l'architetto delle guerre per procura dell'Iran in Medio Oriente. Era anche uno stretto confidente personale dell'uomo più potente dell'Iran, la guida suprema Ayatollah Ali Khamenei.
"Soleimani era quasi come un figlio per la Guida Suprema", ha dichiarato Ali Vaez, specialista dell'Iran presso l'International Crisis Group.
Vaez ha descritto l'uccisione americana come una violazione eccezionale della sovranità agli occhi dell'Iran. Sebbene gli Stati Uniti considerino la Forza Quds un'organizzazione terroristica, al suo interno è considerata una parte formale dell'esercito di Teheran. "Dal loro punto di vista, non si può lasciare impunita l'uccisione del proprio capo militare più anziano", ha detto Vaez.
"Coloro che hanno ordinato l'omicidio del generale Soleimani e coloro che lo hanno eseguito dovrebbero essere puniti", ha scritto Khamenei sul suo account di social media quasi un anno dopo, nel dicembre 2020. "Questa vendetta avverrà certamente al momento giusto".
POLITICO, a dicembre dell’anno scorso, ha parlato con diversi funzionari di Stato americani, tra cui alcuni direttamente minacciati dall'Iran, che hanno descritto gli sforzi quasi costanti di sorveglianza iraniana - in gran parte, ma non esclusivamente, online. Ad esempio tentativi di accedere ai programmi di viaggio e di comprendere le abitudini quotidiane dell'obiettivo identificato. Dove si sposta in viaggio, dove si sposta in vacanza con la sua famiglia, se per caso si sposta all’estero per lavoro.
"A volte possono essere abbastanza specifici. Sanno dove sei, conoscono il tuo stile di vita", ha detto a Politico un ex alto funzionario del Pentagono con conoscenza diretta degli sforzi per l'assassinio, a proposito degli avvertimenti dell'FBI.
Quattro persone che hanno parlato con POLITICO hanno citato l'esempio di Salman Rushdie, lo scrittore vincitore del Premio Nobel. Trentaquattro anni dopo che il leader supremo iraniano aveva ordinato l'uccisione di Rushdie per un romanzo che secondo lui insultava l'Islam, un aspirante assassino ha pugnalato Rushdie 15 volte sul palco di un evento a New York.
"Quando emettono queste fatwa, sono a vita", ha detto il primo alto funzionario della sicurezza nazionale.
Lo scorso luglio l'FBI ha arrestato un agente iraniano che era entrato negli Stati Uniti nel tentativo di organizzare l'assassinio di "una persona politica" come rappresaglia per la morte di Soleimani, ha dichiarato il Dipartimento di Giustizia. L'individuo, di nazionalità pakistana, aveva persino avuto l'idea di partecipare a un comizio di Trump.
"Non c'è dubbio che la minaccia che il regime iraniano prenda di mira [Trump] è più reale che mai", ha dichiarato in un comunicato Marco Rubio, Segretario di Stato americano.
E poi c’è Farhad Shakeri, 51 anni, cittadino afghano immigrato negli Stati Uniti da bambino. Espulso nel 2008 dopo 14 anni di prigione, Shakeri era latitante e si riteneva risiedesse in Iran.
Secondo il Dipartimento di Giustizia americano era lui l’uomo incaricato di uccidere Trump.
Al fine di ottenere una riduzione di pena, Shakeri ha iniziato a parlare con l’FBI, riferendo di un incontro con un funzionario delle Guardie Rivoluzionarie il 7 ottobre 2024 a margine del quale gli era stato chiesto di presentare un piano per uccidere Trump entro una settimana.
Secondo la denuncia, il funzionario aveva detto al signor Shakeri che se non ci fosse riuscito, le Guardie Rivoluzionarie avrebbero sospeso l'operazione fino a dopo le elezioni presidenziali statunitensi. Shakeri ha affermato che il funzionario gli ha detto che il signor Trump avrebbe perso e che in seguito “sarebbe stato più facile assassinarlo”.
Shakeri è poi stato arrestato ed il piano non si è più realizzato.
Dalla divisione del suo “mondo” alle minacce dirette di morte dichiarate apertamente dal regime iraniano, Donald Trump sul dossier Iran si gioca un’enormità politica e personale.
Un’ultima notazione.
Ci sarà tempo e spazio per i commenti e le analisi più approfondite. Tuttavia, mi sembra che si possa abbandonare l’ormai falsa etichetta di “Presidente della pace” associata a Donald Trump.
La grande parata militare, l’esaltazione della violenza militare e l’ispirazione con punte di invidia ai regimi dittatoriali che possono permettersi l’uso indiscriminato della forza.
Le bombe su Afghanistan e Yemen nel suo primo mandato (molte più bombe di Barack Obama in due mandati). Le bombe sulla Siria dopo l’uso delle armi chimiche del regime di Assad. Come abbiamo visto, l’uccisione con un missile del generale iraniano Suleimani. E ora in dieci giorni ha prima dato via libera ai bombardamenti di Israele in Iran e poi è intervenuto direttamente in quella guerra.
Al netto di ciò che uno possa pensare sul suo operato, forse è arrivato il momento di toglierci di mezzo una volta per tutte la sciocchezza del “presidente di pace” e del "con lui nemmeno una guerra".
Gli imperi sono tali se vivono costantemente in guerra per affermare la loro egemonia. E Donald Trump non ha cambiato e non potrà mai cambiare tale attitudine che significherebbe la sconfitta dell’impero americano.